Sulla sentenza di condanna emessa dalla Corte di Appello dell’Aquila a carico di un Comune a risarcire il danno alla salute e professionale in favore di una propria dipendente, quale conseguenza di un comportamento mobbizzante, è tornata la Cassazione civile, sez. lav. con decisione n. 10037 del 15 maggio 2015.
Dalle risultanze istruttorie si rilevava che la danneggiata aveva subito “ la sottrazione delle mansioni, la conseguente emarginazione, lo spostamento senza plausibili ragioni da un ufficio all’altro, l’umiliazione di essere subordinati a quello che prima era un proprio sottoposto, l’assegnazione ad un ufficio aperto al pubblico senza possibilità di poter lavorare, così rendendo ancor più cocente la propria umiliazione”.
Nella vicenda lavorativa, secondo l’istruttoria eseguita anche con il contributo di consulenti nominati nel giudizio di secondo grado, si era riscontrata la presenza contestuale di tutti e sette i parametri tassativi di riconoscimento del mobbing, per cui la Cassazione ha respinto il ricorso presentato dal Comune contro il risarcimento richiesto.
A proposito dei sette parametri di riconoscimento del mobbing, essi sono individuati nel metodo per la valutazione e la quantificazione dello specifico danno (Metodo H. Ege 2002)*.
Questi i sette parametri:
- ambiente lavorativo (il conflitto deve svolgersi sul posto di lavoro);
- frequenza (le azioni ostili devono accadere almeno alcune volte al mese);
- durata (i conflitti devono essere in corso da almeno 6 mesi);
- tipo di azioni (le azioni devono appartenere ad almeno 2 delle categorie del Lipt Hege, questionario elaborato del 1950 da H. Ege*);
- dislivello tra antagonisti (la vittima è in posizione costante di inferiorità);
- andamento secondo fasi successive (la vicenda ha raggiunto almeno la II° fase del modello H. Ege);
- intento persecutorio (nella vicenda è riscontrabile un disegno vessatorio coerente e finalizzato… un obiettivo conflittuale… carica emotiva e soggettiva…).
Altra valutazione della Corte di Cassazione ha riguardato la circostanza avanzata dal Comune secondo cui “la condotta di mobbing proveniva da altro dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima”, circostanza non ritenuta utile dalla sentenza in quanto non vale adescludere la responsabilità del datore di lavoro su cui incombono gli obblighi di cui all’art. 2049 c.c**., ove lo stesso sia rimasto “colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo”.
* Il metodo (inventato dallo psicopatologo Harald Ege) consente sia il riconoscimento o meno della presenza del mobbing e sia il calcolo del grado di lesione risarcibile riportata dal soggetto mobbizzato.
** “I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”.
Info: sentenza Cassazione civile 15 maggio 2015 10037