ROMA – Dopo la prima intervista al professore Remo Zucchetti, massimo esperto di sicurezza sul lavoro, voce autorevole in ambiente nazionale, europeo, internazionale, continuiamo con la seconda parte.
Professore, come valuta la realtà italiana in materia di salute e sicurezza sul lavoro? Qual è lo stato dell’arte?
L’inadeguatezza dell’attuale modello di ispezione di sicurezza. Sotto il profilo normativo e organizzativo questo è il punto debole dell’attuale sistema di tutela. Il nuovo decreto legislativo 81/2008, nonostante le positive modifiche ed integrazioni apportate col D.Lgs. 106/2009, non assicura la effettività della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, segnatamente nei settori a rischio elevato (costruzioni, siderurgia, petrolchimico, ecc..).
Nonostante alcuni passati annunci al momento della redazione del vigente Testo unico il Legislatore ha rinunciato, per il momento, a ridisciplinare la funzione di vigilanza in materia di sicurezza.
L’organizzazione e la gestione dell’attività di ispezione “statuale” è il cardine che dovrebbe assicurare l’osservanza del dovere di tutela da parte dei soggetti debitori di sicurezza (datore di lavoro pubblico e privato, dirigenti, preposti, ecc..). I poteri, le funzioni, lo stato giuridico degli ispettori devono essere riorganizzati. Le risorse assegnate all’organo di vigilanza vanno incrementate per assicurare l’effettivo controllo (con riguardo anche al lavoro irregolare e al lavoro precario).
Senza efficaci verifiche ispettive la sicurezza è destinata a restare solo sulla carta! La lotta alla devianza – mancata tutela della sicurezza – non è gestibile solo con le attuali tecniche di repressione, basate sulle elevate sanzioni pecuniarie enunciate e sull’attività di polizia giudiziaria degli ispettori, i quali non sempre godono della fiducia degli imprenditori, né sono in grado di incutere timore ai disonesti che operano in nero, in spregio delle più elementari misure di sicurezza.
Occorre innanzi tutto sfoltire la pletora di organi di controllo (Aziende USL, Direzioni provinciali del lavoro, ecc.) ridisegnando totalmente l’organizzazione della funzione ispettiva in stretta aderenza alle vigenti Convenzioni internazionali sull’ispezione del lavoro, superando l’attuale momento storico.
Va ripristinato il potere di “diffida”, attribuito agli ispettori, alternativo all’obbligo del rapporto (contravvenzione), segnatamente nei confronti delle piccole aziende, ridando valore al “ravvedimento operoso” dell’imprenditore al fine di assicurare la sicurezza e la pace sociale nei luoghi di lavoro. Il modello di riferimento, che più appare in grado di garantire, in concreto, la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, è quello attuato nel Regno Unito. Ci riferiamo all’Ufficio salute e sicurezza (Health and Safety Executive), dipendente dal Parlamento, al quale sono affidate le attività di prevenzione per tutti i settori produttivi.
Sul tipo dell’agenzia, l’organo di vigilanza è posto alle dipendenze dirette della Commissione lavoro e affari sociali che nomina il direttore generale, assegna il bilancio, approva il programma annuale di ispezione e verifica i risultati annualmente conseguiti.
Il requisito fondamentale richiesto agli ispettori è l’elevata professionalità tecnico-giuridica nelle varie discipline, conseguita e mantenuta attraverso la “formazione continua permanente” fatta presso le università, i politecnici e le scuole specialistiche.
Il personale ispettivo, laureato nelle diverse discipline, si impone non per i poteri punitivi attribuiti all’organo – come avviene prevalentemente nel nostro Paese – bensì per l’elevata professionalità, anche attraverso l’“alta consulenza”, di carattere soprattutto ingegneristico, assicurata alle imprese, come stabilito delle convenzioni internazionali sull’ispezione del lavoro, disattese in gran parte nel nostro Paese, nonostante siano norme cogenti.
Per prevenire la corruzione gli ispettori dell’Organo statuale hanno uno status retributivo adeguato alla funzione svolta ed atto ad evitare di essere allettati dalle lusinghe degli imprenditori senza scrupoli.
A livello locale la vigilanza sulle piccole aziende/unità produttive a basso rischio, esercizi commerciali, laboratori artigiani ecc. potrebbe essere lasciata ai servizi di prevenzione delle Aziende USL, comunque coordinati dall’Organo centrale.
Quali a suo avviso le priorità cui la nostra società dovrebbe dedicarsi per garantire a tutti i lavoratori e le lavoratrici condizioni di lavoro sane e sicure?
Un aspetto enunciato nell’attuale normativa, da disciplinare e attuare in concreto, è quello di assicurare alle lavoratrici le condizioni effettive di tutela della salute. Le differenze di genere nelle condizioni di lavoro si ripercuotono sulla salute. I rischi legati al lavoro influenti sulla sicurezza e la salute delle donne sono stati da sempre sottovalutati rispetto a quelli per gli uomini. La disuguaglianza tra i sessi all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro – segnatamente nelle attività di tipo industriale o che espongono maggiormente a fattori di rischio – può influire negativamente sulla salute e sul lavoro.
L’attuale legislazione assicura la tutela privilegiata delle lavoratrici madri, in stato di gravidanza e durante il puerperio. Tuttavia, restano da risolvere importanti problemi di discriminazione generale rispetto agli uomini. Le donne svolgono in casa la maggior parte dei lavori domestici non retribuiti e si prendono cura dei bambini e dei parenti anche se lavorano in azienda a tempo pieno. Questo impegno fa aumentare notevolmente il loro tempo di lavoro quotidiano (in Italia è stato valutato ad oltre 3 ore al giorno) ed esercita una pressione psico-fisica supplementare su di esse, soprattutto se vi è una incompatibilità tra la loro organizzazione professionale e la loro vita privata.
Vi sono anche fattori di stress che riguardano segnatamente le donne tra i quali vanno annoverate le molestie sessuali, la discriminazione, i lavori monotoni, poco qualificati e con scarso controllo, aggravati dal doppio peso del lavoro familiare che si aggiunge a quello retribuito in azienda. Per la donna infine vi sono problemi legati alla fertilità, al ciclo mestruale, alla menopausa, alla gravidanza, al puerperio ed alla crescita dei figli.
Tutti i lavoratori desiderano un migliore equilibrio tra lavoro e vita. Tuttavia per le donne il problema assume una maggiore importanza per i riflessi stressanti che comporta la condizione femminile. Nel lavoro di ufficio non vi sono differenze notevoli tra uomini e donne ai fini delle ripercussioni sulla salute che invece può essere marcato in attività di tipo industriale, di assistenza e cura agli anziani, ai disabili, ai malati, ecc..
L’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro individua alcuni punti fondamentali da seguire nella valutazione dei rischi prevista dall’art, 28 del D.Lgs. 81/2008. In particolare il datore di lavoro – in assenza di norme particolareggiate – deve impegnarsi positivamente e considerare le problematiche legate al genere nella situazione di lavoro reale, coinvolgendo tutti i lavoratori, uomini e donne, a tutti i livelli, assicurando in ogni caso che tanto le donne quanto gli uomini ricevano informazioni e formazione sulla sicurezza sul lavoro relative ai compiti che svolgono, alle loro condizioni di lavoro e alle ripercussioni sulla salute.
La formazione alla sicurezza: la carta vincente per assicurare la tutela della salute nei luoghi di lavoro. Il miglioramento della salute e della sicurezza dei lavoratori deve rispondere all’esigenza di operare in una logica di “sistema”, all’interno del quale siano individuate le priorità di intervento, realizzate con appropriate ed efficaci azioni di prevenzione, assicurando il reale coinvolgimento di tutti gli attori del sistema; siano prodotte e diffuse adeguate e fruibili informazioni per migliorare le conoscenze ed indirizzare le scelte operative.
Com’ è noto il Testo Unico sulla sicurezza del lavoro – di cui al D.Lgs. n.81/2008, stabilisce l’obbligo giuridico, sanzionato penalmente, a carico del datore di lavoro pubblico e privato e dei dirigenti di provvedere ad una adeguata e specifica formazione e a un aggiornamento periodico, dei dirigenti e dei preposti, in relazione alle funzioni svolte, naturalmente oltre alla formazione specialistica del personale sui rischi di esposizione derivanti dalla mansione. Inoltre, in tema di sicurezza nei lavori edili e di genio civile – appaltati alle imprese – il T.U., all’ art. 90, individua nel committente il destinatario primario della sicurezza nella progettazione, nella gestione e controllo del cantiere nella fase di realizzazione dell’opera, chiamato ad adempiere agli obblighi di sicurezza sanzionati penalmente attraverso i coordinatori per la progettazione e per l’esecuzione dal medesimo nominati.
Con riguardo specifico alla formazione del datore pubblico e privato e dei committenti la normativa è muta! Eppure questi soggetti , essendo al vertice dell’organizzazione del lavoro dovrebbero essere i primi a conoscere i loro doveri di sicurezza per assicurare la tutela dei lavoratori. La mancata formazione dei soggetti di vertice comporta, a cascata, un senso di diffuso disinteresse per la sicurezza sul lavoro nelle aziende a cominciare dai dirigenti che, in genere, non la considerano un investimento bensì un costo, da ridurre nei momenti di crisi.
E ancora per finire sul momento attuale, parliamo della sicurezza cartacea. Nello scarso interesse per la sicurezza –sentimento frequentemente diffuso – l’unica preoccupazione dei vertici aziendali è quella di possedere la documentazione atta ad evidenziare che sono stati adempiuti formalmente gli obblighi di sicurezza. Manca nel nostro Paese quella che la Cassazione nella sua giurisprudenza definisce la “effettività della tutela”.
La Commissione dell’Unione nel rapporto ai Paesi membri sullo stato di attuazione delle direttive comunitarie sulla sicurezza ha da tempo rappresentato che diversi Stati, tra cui l’Italia, non hanno previsto nella loro legislazione la formazione obbligatoria dei Datori di lavoro e dei Committenti, la quale nei Paesi più virtuosi è rispettivamente di 25 e 40 ore.
Anche nei complessi produttivi è infrequente che i vertici (CdA, presidenti, amministratori delegati, direttori generali) posseggano una sufficiente formazione giuridica in materia di sicurezza.
Il problema è che la scuola non li ha formati su questo specifico e delicato aspetto organizzatorio e gestionale che coinvolge la vita dei lavoratori. Siamo sempre in attesa che nelle scuole di ogni ordine e grado, a cominciare dalle elementari, come affermato da oltre un decennio, si introduca lo studio della sicurezza in casa, in strada, a scuola e, gradualmente, nei luoghi di lavoro e di vita.
Occorre investire sulla formazione affinché questa materia diventi elemento immancabile dei programmi di studio, ad iniziare dalle Università, con contenuti diversificati a seconda delle facoltà. Sorprende che ancora oggi – dopo 15 anni dall’entrata in vigore del nuovo corpus normativo comunitario – i nostri laureati e diplomati tecnici (architetti, ingegneri, periti, geometri, ecc..) chiamati a svolgere funzioni di prevenzione e protezione nell’organizzazione dei processi aziendali (cantieri, fabbriche, ecc..) frequentemente conoscono la legislazione di sicurezza da “orecchianti” per “sentito dire”.
L’auspicio che la prossima generazione, guidata dalla volontà decisa delle organizzazioni datoriali e sindacali, acquisisca la necessaria conoscenza e sensibilità della materia traducendola in organizzazione e gestione dei processi lavorativi in sicurezza riducendo il rischio, sempre in agguato sul posto di lavoro. Alcuni di questi suggerimenti li possiamo ritrovare, esposti in forma propria, nell’indagine conoscitiva sulle “morti bianche” svolta dal Senato della Repubblica e pubblicata all’inizio del 2008.
Le scelte di politica aziendale non dovrebbero mai porre in secondo piano la sicurezza e la salute dei lavoratori, anche per le enormi conseguenze economiche e di sofferenza umana che la collettività da sempre patisce.