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Cancella i dati dal pc, licenziato per giusta causa, l’ok della Cassazione

Sul licenziamento per giusta causa (aveva cancellato tutti documenti di lavoro dal suo computer, poi recuperati) il dipendente aveva ricorso chiedendo il reintegro e il risarcimento dei danni da parte della propria ditta.

Contro la sentenza di non accoglimento il dipendente ha proposto ricorso per Cassazione, al quale ha resistito con contro ricorso la ditta.

La Cassazione Civile, Sez. Lav., 14 maggio 2015, n. 9900 ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento, in favore della ditta controricorrente, delle spese del presente giudizio.

Secondo la sentenza, la Corte territoriale aveva sostenuto che non erano stati provati né: a) lo svolgimento da parte del lavoratore di mansioni aggiuntive, nè b) lo svolgimento di lavoro straordinario, né c) il mobbing lamentato.

Aveva, la Corte territoriale, affermato la legittimità del licenziamento, sia sotto il profilo del rispetto delle garanzie procedimentali sia sotto quello della sussistenza della giusta causa, in quanto il fatto addebitato al lavoratore… era risultato provato.

La condotta del dipendente, sosteneva la Corte, oltre a essere astrattamente inquadrabile nella fattispecie penale di cui all’art. 635 bis c.p., rientrava nella previsione degli artt. 146, comma 2°, e 151 del C.C.N.L., in forza dei quali “il lavoratore, in caso di grave violazione dell’obbligo di conservare diligentemente le merci e materiali dell’impresa, può essere licenziato”.

Anche in ordine al mobbing, sostiene la Cassazione, la motivazione è completa e priva di interne contraddizioni, poiché i giudici del merito hanno accertato l’insussistenza in concreto di una condotta vessatoria tenuta dalla ditta ai danni del ricorrente, avendo ritenuto insussistenti gli elementi sintomatici del mobbing indicati dal ricorrente (la disponibilità di una segretaria personale che gli sarebbe stata poi inopinatamente sottratta, l’esclusione dalla partecipazione a riunioni – queste in realtà riguardavano i dirigenti e non anche i quadri, come il ricorrente…).

Quanto alla circostanza dedotta dal ricorrente, secondo cui la ditta avrebbe comunque recuperato tutti dati da lui cancellati, la Corte territoriale l’ha espressamente smentita, dando rilievo alle deposizioni testimoniali da cui era emerso che la società aveva potuto recuperare solo parte dei files cancellati attraverso il sistema back up.

Tale valutazioni, sottolinea la Cassazione, “in termini di gravità non può essere disgiunta dalla considerazione … del rilievo penale della condotta ascritta al lavoratore, sotto la specie del reato di danneggiamento di dati informatici previsto dall’art. 635 bis cod. pen., il quale deve ritenersi integrato anche quando la manomissione ed alterazione dello stato di un computer sono rimediabili soltanto attraverso un intervento recuperatorio postumo comunque non reintegrativo dell’originaria configurazione dell’ambiente di lavoro”.

Info: sentenza Cassazione 14 maggio 2015 n.9900

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